di Eleonora Verardi e Filippo Bardella
Massimina cammina sul lungomare di Nettuno. E con ogni passo, scava un sentiero per chi verrà dopo. I piedi scalzi e insabbiati si muovono verso di noi, il passo è quello fiero di una regina, il corpo una macchia nerovestita, lugubre e solenne. Il volto, stanco, rivela i segni di una vita. Il campo lungo iniziale termina con un primissimo piano: gli occhi di Massimina squarciano lo schermo, lo sguardo serio e strafottente sfida lo spettatore, la sigaretta è finita, la nebulosa del fumo diradandosi chiude il sipario. La camera non la insegue, la accompagna. Non la studia, l’ascolta. Non la giudica, anzi, la celebra, senza filtro, senza purificazione. È lei, Massimina, a prenderci per mano, a governare e direzionare lo sguardo spettatoriale. Si impone ai nostri occhi con la forza dissacrante e tremenda di chi non nasconde le proprie contraddizioni.
È questo l’inizio di MAXIMINA, ciò che vediamo nella prima scena del film, appena prima che Massimina se ne vada lasciando spazio ai caratteri cubitali, eccessivi, cartooneschi che compongono il titolo del film e invadono lo schermo sovrapponendosi alla purezza dell’immagine del mare intravista per qualche frazione di secondo. Si potrebbe parlare del film anche solo attraverso l’analisi di questa scritta, ogni lettera racconta una storia, ogni carattere è un simbolo dotato di un suo proprio significato – seppur caricaturale, infantile e spudorato nella decifrazione – e contestualmente partecipa alla costruzione della significazione complessiva, MAXIMINA. Il titolo di testa, dunque, anticipa e suggerisce allo spettatore, in modo acuto e sottile, ciò che sta per vedere: il ritratto di un essere umano. Un ritratto che nel tentativo di restituire una realtà sincera non può essere altro – secondo la regola di Charles Foster Kane, valida nella finzione e forse ancor di più nella realtà – se non un insieme di frammenti, in questo caso un caleidoscopio di momenti, ricordi, pensieri folgoranti e aneddoti sorprendenti. Le lettere che compongono il titolo e individuano il nome della protagonista sono quindi trasfigurazioni simboliche che, iconicamente, rivelano prospettive e angolazioni delle diverse facciate tenute insieme e incarnate in Massimina. Ecco che la sigaretta, il gatto, la borsa leopardata, le calze e i tacchi, non sono solo estetiche customizzazioni, innocui travestimenti dell’alfabeto, ma assumono il carattere di segni in grado di suggerire e restituire nei primi secondi del film un’immagine immediata, quindi senza filtri, della protagonista e dell’opera nella sua complessità.
MAXIMINA è un corto documentaristico della durata di 19 minuti e 59 secondi diretto da Blu Diego Fasoli che abbiamo avuto il piacere di intervistare insieme alla produttrice creativa Caterina Bertini. Il film è il progetto di laurea del master in documentary alla University of the Arts London (UAL) ed è stato completato nel 2024. La genesi, la struttura e la lavorazione del documentario sono dunque subordinate a specifiche linee guida e/o ad una serie di determinate limitazioni imposte, come ad esempio quella sul minutaggio necessariamente inferiore ai venti minuti. La natura del progetto ha quindi portato il regista a lavorare nelle prime fasi di ideazione del film esattamente come fosse una
tesi di ricerca universitaria, passando attraverso la scelta di un campo di interesse specifico – in questo caso quello del sex work – seguita da mesi di studio e meticolosa preparazione riguardo testimonianze di esperienze e racconti in prima persona, per arrivare infine all’analisi dei modi e delle particolari strategie narrative con cui questa realtà, vastissima e continuamente fraintesa, è stata e viene quotidianamente raccontata da documentari, opere di finzione, servizi giornalistici e cronaca televisiva di vario genere. Con l’obiettivo di non cadere nel facile pietismo e sensazionalismo che invade le opere che cercano di raccontare questo ambiente, il passo successivo è stato quindi quello di procedere con una vera e propria domanda di ricerca, in modo da orientare lo sviluppo del film verso una prospettiva inedita e originale nel tentativo di rifuggire clichés e immagini stereotipiche.
Cosa accade quando si intraprende la strada del sex work come scelta personale e consapevole, e dunque in un senso che si potrebbe definire autodeterministico? Quali sono i limiti di questa possibilità? Come seguire e raccontare una persona che sceglie di essere una lavoratrice sessuale senza imposizioni o particolari necessità, e che quindi evita di appiattirsi e sovrapporsi ad un’etichetta che non la esaurisce né tantomeno la definisce?
Come si vede da queste premesse l’intento che costituisce il punto di partenza di MAXIMINA e che soprattutto ne definisce l’intenzione e lo sguardo registico, è quello di chi auspica un netto rovesciamento di prospettiva nel racconto, di chi lamenta il vittimismo che circonda le protagoniste di queste storie e rifiuta quell’insopportabile sensazione di compiaciuto voyeurismo che accompagna la messa a fuoco dei loro corpi. La risposta del regista all’ipersessualizzazione degli sguardi, alla proliferazione degli occhi avidi, febbrilmente eccitati, impressi sui corpi-oggetti della narrazione è quella dell’assenza in uno sguardo proprio, ossia dell’adozione di un punto di vista neutro nel tentativo di restituire una realtà il più possibile pura, senza manipolazioni o direzionamenti. Il regista con coraggio si affida a Massimina lasciandole le redini del gioco nella convinzione che la propria voce sia poco importante rispetto alla sua vita, dichiarando apertamente la volontà di fare da tramite; di ridursi a mezzo strumentale per storie che hanno bisogno di essere raccontate; di nascondersi dietro la debordante, esagerata performatività di Massimina che gradualmente, di minuto in minuto, sembra ingigantirsi fino ad assumere il controllo.
Massimina ci guida, sembra quasi invitarci alla scoperta della sua vita. Seguendo il ritmo incalzante e ipnotico della sua voce ci ritroviamo improvvisamente catapultati dentro il suo mondo, rapiti e affascinati dalla stravaganza delle storie, colpiti dalla sincerità genuina di un’esagerazione che non è mai artefatta o costruita, e forse invidiosi della naturalezza con cui si prende gioco di regole e morali propri di una cultura borghese che sente estranea, a cui – forse anche inconsapevolmente – non si conforma. Ciò che costituisce la forza e l’unicità MAXIMINA non è solo il racconto della vita di una lavoratrice sessuale né il resoconto delle difficoltà quotidiane di una donna transessuale, quanto
piuttosto la progressiva perdita di controllo non solo del regista demiurgo-burattinaio ma soprattutto dello spettatore che nel corso dei venti minuti che compongono il film, viene gradualmente coinvolto ed infine investito dalla forza straripante di Massimina. Ecco che la camminata sulla spiaggia che apre il film non è altro che un’anticipazione simbolica del progressivo dominio della protagonista, del suo farsi padrona incontrastata dello schermo, compimento e acme del processo di destrutturazione della prostituzione e delle sue convenzioni di genere.