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Narcisismo e capitalismo della pietà in Sick of Myself

2025-09-13 14:47

Luca Caltagirone

Cinema Scandinavo,

Narcisismo e capitalismo della pietà in Sick of Myself

Nell’epoca del consumismo, del vittimismo e del narcisismo più estremo,il regista norvegese Kristoffer Borgli, nel suo esordio Sick of Myself, dirigeu

Nell’epoca del consumismo, del vittimismo e del narcisismo più estremo,
il regista norvegese Kristoffer Borgli, nel suo esordio Sick of Myself, dirige
un film satirico che racconta le derive contemporanee più tristi e
pericolose, mischiando un certo umorismo nero con toni più orrorifici.
La protagonista è Signe, una giovane barista fidanzata con Thomas,
un’artista specializzato in sculture e installazioni di arte concettuale e
contemporanea. La ragazza, sentendosi nell’ombra dato il successo del
fidanzato, prova in tutti i modi a catturare attenzioni e visibilità, arrivando
al punto di ingerire massicce dosi di un farmaco pericoloso e ritirato dal
mercato, che le provoca gravi deformazioni e protuberanze sul corpo.
Contattata da agenzie pubblicitarie, di moda e da case editrici e ottenuto il
bramato successo, Signe dovrà riuscire a sopravvivere in questo mare di
bugie e frustrazioni.
Con la fredda estetica del cinema scandinavo, unita a elementi del body
horror alla Cronenberg e un amaro intento satirico, Borgli racconta una
nuova e attuale deriva del mondo contemporaneo: l’inclusività come
strumento di consumo, di capitalizzazione e di spettacolarizzazione del sè.
La deformazione fisica volontaria diventa per Signe l’unico modo per
esistere, per ricercare attenzioni, fama e soldi. Il film compie una critica
alla rappresentazione che fanno i media del corpo “deformato”, spacciato
come mezzo di sensibilizzazione e di inclusività, ma in realtà sfruttato per
finalità di marketing e a scopo di lucro e di capitalizzazione. Di recente,
nell’ambito del marketing, sono stati inventanti alcuni neologismi come
greenwashing, pinkwashing o rainbow washing, proprio per indicare
queste tecniche pubblicitarie incentrate sull’apparente rispetto e la
sensibilizzazione di tematiche delicate, tuttavia finalizzate unicamente alla
promozione del prodotto e ad accattivarsi la simpatia del consumatore
utilizzando fiocchetti rosa, bandierine arcobaleno ecc. Le dette tecniche
pubblicitarie, in ambito sociologico e mediale, sono racchiuse sotto le
espressioni “pornografia del dolore” o “capitalismo della pietà”, che
mettono bene in luce il tema della spettacolarizzazione del dolore per fini
utilitaristici e seguendo le logiche del mercato. La Prof.ssa di teoria e
metodo dei mass media Serena Mazzini, nel suo nuovo saggio Il lato
oscuro dei social network, lo spiega perfettamente: «La vulnerabilità, in
tutte le sue forme, è diventata una merce preziosa, sfruttata senza scrupoli
per guadagnare punti nel vasto e spietato gioco della visibilità. Che si tratti

di deridere le vittime o di ispirare sentimenti di tenerezza o vicinanza
emotiva negli utenti che fruiscono di questi contenuti, lo scopo è
comunque ottenere un guadagno». Il tutto può essere riassunto nella frase
emblematica: «Non si tratta di altruismo, insomma, ma di capitalismo
travestito da filantropia». Ed è infatti proprio nel momento in cui Signe
subisce la volontaria deformazione fisica che tutte le forme mediali sono
voyeuristicamente e utilitaristicamente attratte dal suo corpo, e la ragazza
passa da avere una vita “ordinaria” come commessa in un bar, ad ottenere
fama e successo in una spirale di autoreferenzialità e spettacolarizzazione
del “sé deformato”. La protagonista diventa quindi vittima e carnefice di
un sistema illusorio e crudele, divisa tra un narcisismo patologico e una
profonda solitudine, che decide di ribaltare gli standard di bellezza
contemporanei, in una società che offre fama e visibilità ai corpi dalla
perfezione più assoluta ma anche dalla deformazione più estrema. A
differenza della protagonista di The Substance, Signe non compie quella
insensata e distruttiva corsa alla perfezione estetica ma fa il suo completo
opposto: sfruttando le logiche del mercato e dello spettacolo, cerca di
costruire un sé mostruoso “vendibile” e “consumabile”, ma allo stesso
tempo pericoloso e destabilizzante.
Nell’era del consumo compulsivo e malato di corpi e immagini, Borgli
offre un’interessantissima riflessione sul dolore e il vittimismo come
strumenti di spettacolarizzazione e mezzi per la ricerca di fama e visibilità,
costruendo una critica feroce ad una società ipocrita che, sotto il velo
dell’altruismo dell’inclusività, nasconde pericolosi processi di
autocelebrazione e di ricerca di consenso, visibilità e potere.

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