Vivere nel fuori, dando dignità al dentro
di Lucrezia Bazzolo
La storia di una paradossale libertà, in cui l’uscita e l’entrata dal carcere si alternano e, intersecandosi, raccontano quello che è stato e quello che è, con una continuità narrativa ed esistenziale che parla di amore, di legami indissolubili e di un’amicizia straziante. Con la regia di Mario Martone, la pellicola apre le porte e permette di entrare nella vita della scrittrice Goliarda Sapienza, in cui fluttua persistente una desolazione solitaria, affiancata a una stasi delle cose, all’impossibilità di vederle muoversi e modificarsi. Una Roma torrida e desertica fa da scenario a un silenzioso, eppure vulcanico, desiderio di cambiamento, in cui la liberazione dal Dentro ritorna come un flusso costante di luce che rende le giornate vive e commoventi; primaria si rivela anche la ricomparsa di Roberta, fedele compagna di cella con cui rievocare non solo ricordi, ma tornare a sentirsi libera, davvero. È così che viene raccontato il capovolgimento di quello che per i personaggi vuol dire “essere fuori”; contrariamente a quello che nell’immaginario comune viene considerato uno spazio ristretto, costrittivo, qui il penitenziario viene riconsiderato con spirito rivoluzionario. Attraverso gli occhi delle protagoniste la reclusione assume un significato, un valore tutto nuovo, smette di essere privazione e incredibilmente diviene bellezza, complicità, la dimensione in cui sentirsi unite e mai sole, mentre Fuori si cerca di “non perdere l’equilibrio e muoversi nel traffico”. Perché è proprio nel mondo che si trova la vera galera, quella piccola e giudicante dei salotti da cui la scrittrice cerca disperatamente di uscire. “Fuori” viene gridato come un inno al riscatto, voci e voci di donne lo intonano richiamando a sé una fame di esistenza, la bramosia del voler assaporare quello che le aspetta, senza tuttavia voltare le spalle al luogo che le ha “accolte”, anche apparentemente respingendole. Quella raccontata è un’affezione, un tenero e inaspettato attaccamento delle detenute alla prigione, è la stessa Goliarda ad affermare che “loro stanno dentro anche quando stanno fuori”. Sulla scia di questo ricordo onnipresente a districarsi è un rapporto complesso e semplicissimo, quello tra Goliarda e Roberta, fatto di silenzi, di sguardi infiniti e passati ingombranti; un legame dai tratti incestuosi, eppure incredibilmente equilibrato nella sua precarietà. Stare una accanto all’altra, comprendersi nella difficoltà dei giorni, in un tempo che a volte sembra dilatato e altre scorre invece in una corsa sfrenata e isterica, il sapere di esserci diventa essenziale per ricordare il passato e cercare di ricreare il presente. Goliarda e Roberta si ritrovano gettate in un reale che si manifesta nemico, respingente, ma le loro sorti cambiano in un torrido e normalissimo pomeriggio durante una visita a Barbara, anche lei ex carcerata e sincera amica; tre identità, ognuna in cerca della propria salvezza, recluse nel tempio di un’amicizia che slega, rende nude e crudamente visibili. Nel contesto di una ribellione innocua e genuina, Martone fa riflettere sulle fallaci convinzioni che ancora oggi si muovono intorno alla prigionia, scardinandole e scoprendone delle altre, esattamente opposte. A tal proposito, nella storica intervista di Enzo Biagi del 1983 Goliarda Sapienza parla del carcere come soggetto, come persona, sostenendo che “carcere non è bello, carcere è come il fuori.” In questa produzione la rispettabilità di quelle mura, di un villaggio in cui le capacità dell’individuo vengono finalmente riconosciute, emerge fieramente come un canto sovversivo e ribelle. Una dignità che dona realismo ai fatti, la volontà di fare rumore, di farsi sentire nella piccolezza di una vita indimenticabile e imponente.