La ricerca del contatto umano in una solitudine che inaridisce, un affamato desiderio di empatia
di Lucrezia Bazzolo
La riscrittura, il riadattamento cinematografico del romanzo di William S. Burroughs, attraverso occhi mossi da una bramosia che apparentemente sembra sinonimo di oggettificazione del corpo, della mera carne, per poi rivelarsi una necessità di connessione, un guardarsi intorno silente, eppure così chiaramente in cerca di aiuto. Tra scorci immaginifici, contesti surreali in cui la storia spiega lentamente le sue vele, Lee, interpretato da Daniel Graig e alter-ego di Burroughs, muove i suoi passi in una città umanamente scarna, promiscua, melmosa e viscida come la pelle di un serpente, alla ricerca di un compagno con cui intrattenersi, per scongiurare l’insistente e oceanico vuoto percepito in una vita solitaria, nutrita da dipendenze e abusi. In questo ricercare spasmodico, in questa vana e superficiale, ripetitiva costruzione, il protagonista si svela errante, tanto adulto quanto adolescente, nella stagnante incapacità di ritrovarsi. Circondata da questo clima appare una figura misteriosa, eppure talmente necessaria, Eugene, che durante l’incipit della narrazione non chiarifica mai la sua posizione, una presenza destabilizzante per Lee, inizialmente intoccabile e irraggiungibile, ma che con il dispiegarsi della storia si manifesta sempre più incandescente ed estremamente vicina. I primi contatti tra i due avvengono timidamente, le membra dell’uno e dell’altro si mostrano reciprocamente in una danza gestuale, un’armonica disarmonia in cui provare a capire come muoversi; è a questo punto che gesti immaginari si fanno preludio di un legame che comincia a nascere, aprendo così le porte alla possibilità di definire l’indefinibile, il complesso, il distante. Mexico City, con una percepibile aria di violenza, accende i riflettori su una conoscenza difficile, intricata, diventando così anche lo scenario in cui tentare di tracciare le coordinate di un racconto che arde. Un bisogno di sentirsi legati, la voglia di appartenere “a un tremendo tutto” dopo esser stato niente, dopo essersi sentito parte di quel vortice senza fine tipico dell’a-sentimentalità. Ogni oggetto, frammento della realtà, diventa impetuosamente la parte di un insieme, porzioni di mondo che si incontrano, la chiara sensazione di dover vivere con consapevolezza e la paura e la tenera titubanza nel permetterlo. Tra “la difficoltà nel convincere l’altro che è parte di te” e il voler parlare senza parlare, quello che si crea tra Lee ed Eugene è un’unione inaspettata, che muove i suoi primi passi nella città in cui tutto è ambientato, per poi arrivare al suo apice durante un viaggio verso terre lontane. È proprio Lee a proporre una fuga, per perdersi e poi ritrovarsi nel silenzio della parola e nella potenza delle menti, alla ricerca della telepatia. Un ritorno al primordiale, all’esotico e alla cultura indigena, costruisce lo spazio per andare in fondo, per guardarsi letteralmente dentro e annullare ogni terrena e precedente convinzione, un processo che tuttavia non trova mai totalmente soluzione se non nell’immediato. Terminato quello che prende le sembianze di un nomadismo condiviso, un progetto che si scopre di comuni intenti, quello che però in seguito rimane è una divisione e una distanza, una promessa mancata di vita insieme. Un climax fisico e sentimentale, l’esplorazione di un genere e della propria identità, tutto questo e molto altro rappresenta Queer, in cui Luca Guadagnino inscena un eterno desiderio mai totalmente soddisfatto, il volersi vivere traslato in una mancanza perenne. Un luogo in cui poter leggere l’amore diversamente, una lenta e amara rassegnazione portata dall’assenza dell’altro, da due destini che in fin dei conti non si incrociano, in un continuo e silenzioso sfiorarsi.