di Nicola Bartucca
“Sarebbe strano lavorare in un ristorante e non perdere completamente la testa.”
Nel tempo che serve a impiattare una costina d’agnello, Carmy Berzatto ha già perso una parte di sé, e noi con lui. The Bear, in quattro stagioni furiose e commoventi, ha raccontato molto più di una storia di chef o di un ristorante da salvare: ha dato un volto, un corpo e un ritmo al modo in cui viviamo oggi. Sempre sul filo, sempre in rincorsa, sempre all’inseguimento di una perfezione che ci svuota. Come Carmy, siamo tutti dentro un servizio che non finisce mai. Anche la domenica, che dovrebbe darci tregua, finisce per lasciarci in panchina. A guardare la vita da bordo campo, e ci spaventa vedere la partita a cui non stiamo giocando.
Creata da Christopher Storer e ambientata in una Chicago viscerale e piena di contrasti, la serie si apre con un lutto: Carmy – Jeremy Allen White – enfant prodige della ristorazione stellata, torna a casa dopo il suicidio del fratello maggiore per gestire The Original Beef of Chicagoland, una paninoteca di quartiere sull’orlo del fallimento. Ma presto si capisce che non è solo un dramma familiare, né una parabola imprenditoriale. The Bear è un racconto sull’identità, sull’esaurimento, sull’impossibilità – oggi più che mai – di distinguere chi siamo da quello che facciamo.
Il linguaggio tecnico della cucina – “Sì, chef!”, “Passo!”, “Comanda!”, “Dietro!”, “Servizio!” – diventa la spina dorsale della narrazione. Ogni ordine è una ferita, ogni gesto un codice. La cucina non è solo uno spazio fisico: è un sistema produttivo che replica, quasi in modo spietato, le dinamiche dei nostri ambienti di lavoro: ritmi esasperati, ansie da prestazione, gerarchie mobili, obiettivi continuamente spostati più in là e impossibili da raggiungere. E attorno, il vuoto. La vita privata si ritira. I legami si sfaldano. Il sorriso diventa un lusso concesso solo quando tutto fila liscio. E anche in quel caso, dura poco.
“Esiste una parola per quando hai paura di una cosa bella, perché pensi che capiterà una cosa brutta?”
“Non lo so. Vita?”
(Carmy e Richie, stagione 1)
La regia di Storer ci scaraventa dentro questa tensione con piani sequenza mozzafiato, camere a mano instabili, montaggi sincopati. Ogni episodio è un flusso ininterrotto di caos e fragilità esposte. L’episodio Review della prima stagione, girato in tempo reale, è già considerato un piccolo capolavoro. Ma è con Fishes (stagione 2) che la serie esplode davvero: una cena di Natale lunga 66 minuti in cui affiorano, tutte insieme, le crepe della famiglia Berzatto. Un esercizio di stile che non punta all’effetto, ma al nervo scoperto.
E poi c’è il settimo episodio dell’ultima stagione. Il più efficace. Uno dei migliori dell’intera serie. Un matrimonio, una tregua, una sospensione. Anche lì ci si ritrova sotto un tavolo a parlare. Un gesto che richiama la penultima puntata della seconda stagione, quando Carmy e Sydney cercano di capirsi sopra le note di Come Back, dei Pearl Jam – per istinto, per protezione – tra parenti stretti, acquisiti, amici, semplici affetti. La famiglia, qui, non è solo quella imposta dal sangue: è quella che resta, o che sceglie di esserci. Uno alla volta, si accucciano lì sotto, come bambini che vogliono stare al sicuro, e provano a dire ad alta voce ciò che li spaventa davvero. Età diverse, esperienze diverse, ma la stessa accettazione: che la paura non è una debolezza, è un modo per riconoscersi.
E poi il ballo finale: goffo ed elegante allo stesso tempo, liberatorio. È uno dei rari attimi in cui i personaggi non fuggono. Stanno. Insieme.
“Non c’entra il cibo. C’entrano le persone.”
Nell’arco delle quattro stagioni, intorno a Carmy si muove un ensemble di personaggi costruito con precisione millimetrica. Sydney, giovane sous-chef rigorosa e ambiziosa, incarna la tensione costante tra talento e legittimazione. Richie, il “cugino” impulsivo e inconcludente, attraversa una delle trasformazioni più sorprendenti: da scheggia impazzita a pilastro del ristorante, la sabbia che tiene tutti i sassi insieme. Tina, veterana silenziosa, rifiorisce quando finalmente qualcuno le dà fiducia. Marcus, con la sua dolcezza metodica, cerca nel dessert una risposta che vada oltre la tecnica. E poi Natalie (Sugar), Claire, zio Jimmy, Neil, Doppia D e tutto il resto della brigata: ognuno con una ferita, ognuno aggrappato a un proprio modo per restare a galla. Nessuno è accessorio. Tutti contano.
E poi c’è Chicago, che non è solo sfondo: è una presenza viva. La si respira nei dialoghi, nei silenzi, nei dettagli. È una città ruvida, piena di contraddizioni, lontana dall’estetica da cartolina. E proprio per questo, autentica. Bella e difficile, rumorosa e malinconica. Esausta, ma ancora viva.
“Why don't you just hold me? Hold me and kiss me now.”
(Save It For Later, Eddie Vedder x The Bear stagione 3 e 4)
A fare da contrappunto emotivo, una colonna sonora straordinaria. Non accompagna: commenta. Dai Wilco ai Counting Crows, dai R.E.M. ai Pearl Jam (con una parentesi solista di Eddie Vedder), da Radiohead a Genesis, passando per The Breeders, Ed Sheeran, Refused, The Replacements, LCD Soundsystem e Sufjan Stevens. Ogni brano è un frammento di memoria, una crepa, un’intuizione. L’uso del suono – e del silenzio – è chirurgico. Quando parte Love Story (Taylor’s Version) durante un momento di solitudine di Richie, o quando l’urlo dei Nine Inch Nails si fonde al clangore dei piatti, capisci che The Bear non si limita a raccontare una storia: te la fa sentire addosso. In pancia, nei nervi, sotto pelle.
Eppure, al centro resta sempre Carmy. Un uomo che ha fatto della nevrosi la propria armatura. Che riesce a comunicare solo attraverso la cucina. Che ha sacrificato tutto – relazioni, salute, serenità – per inseguire un ideale che forse non gli appartiene nemmeno. La sua ossessione per la perfezione è anche la nostra. È il modo in cui proviamo a resistere in un mondo che ci chiede sempre di più e non restituisce quasi nulla, se non un’altra notifica, un’altra deadline, un altro aggiornamento. Lavoriamo per migliorarci, ma nel frattempo smarriamo noi stessi. Chi ci vuole bene. E il senso di tutto questo.
“Stai guardando il fuoco e pensi: ‘Se non faccio nulla, questo posto brucerà e tutta la mia ansia se ne andrà con esso.’”
Nel finale della quarta stagione, infatti, Carmy si trova davanti a un bivio, e The Bear compie il suo gesto più audace: suggerisce che anche nella cucina più perfetta, anche nella vita più brillante, c’è sempre spazio per i dubbi. E che forse è proprio da lì che si può ripartire.
La redenzione, in fondo, non è mai totale. The Bear non offre soluzioni né catarsi. Non promette salvezze, né finali rassicuranti. Ma ci lascia qualcosa di più raro: la possibilità di riconoscerci in quel caos.
Non è il disordine a spaventare davvero i protagonisti. È l’ordine. È la quiete. È il momento in cui resti da solo con te stesso e non sai più chi sei. Dice Carmy: “Io non so chi sono. Fuori da una cucina, io non so chi sono.”
Ed è proprio questo il punto. The Bear è anche – e forse soprattutto – una riflessione sull’incapacità di percepirsi, di stare fermi, di non lasciarsi definire solo dal proprio ruolo. Un racconto su quanto sia fragile l’identità quando tutto intorno a noi crolla, o ci obbliga a resistere. In un presente che ogni giorno ci riconsegna la famiglia che non abbiamo scelto, e dalla quale sempre più spesso desideriamo fuggire.
Nella fatica di tenere tutto insieme, nel bisogno di controllare ogni cosa per non crollare, nell’impossibilità di fermarsi anche quando sarebbe l’unica scelta sensata, resta spesso una sola via: scappare. Anche da ciò che una volta abbiamo amato. Anche da quella trappola che, un tempo, chiamavamo casa.
“Ogni secondo conta.” Ma il filo, alla fine, lo tiene ancora una volta Mikey, in quella lettera d’addio che vediamo nel finale della prima stagione: “Love you dude. Let it rip.” Spacca tutto. Forse è l’unico motore che ci resta davvero. Da non dimenticare. Mai.