di Lorenzo Dagradi
Ieri sera si è tenuta, come da tradizione, la riunione annuale del cinema italiano: i Premi David di Donatello. Un appuntamento in cui, puntualmente, gli addetti ai lavori ribadiscono le difficoltà che affliggono il settore, salvo poi ritrovarsi l’anno seguente senza cambiamenti concreti, se non l’auspicio di una stagione cinematografica ricca di titoli significativi. Quest’anno, fortunatamente, sembra sia stato proprio così. Nella suggestiva cornice dello Studio 5 di Cinecittà a Roma, a trionfare è stato Vermiglio di Maura Delpero, già candidato ai Golden Globes come miglior film in lingua straniera. Il film ha dominato la serata conquistando ben sette statuette tra le categorie principali: miglior film, miglior regia (con Delpero prima donna a vincere in settant’anni di premi), miglior sceneggiatura originale, miglior fotografia, miglior suono, miglior produzione e il nuovissimo riconoscimento per il miglior casting, introdotto proprio in questa edizione. A seguire, Le Déluge – Gli ultimi giorni di Maria Antonietta di Gianluca Jodice, partito inizialmente in sordina, ha sorpreso portando a casa quattro premi nelle categorie tecniche: scenografia, costumi, trucco e acconciatura. Un bottino importante per un film che sembrava destinato a restare ai margini della serata. Tre premi ciascuno, invece, per due opere dirette da registe donne: Gloria! di Margherita Vicario, che ha conquistato il David per la miglior regista esordiente, oltre a quelli per miglior compositore e canzone originale; e L’arte della gioia di Valeria Golino, premiato per la miglior attrice protagonista (una sorprendente Tecla Insolia), miglior attrice non protagonista (Valeria Bruni Tedeschi, in grande forma) e miglior sceneggiatura non originale. Elio Germano conquista il suo sesto David di Donatello per l’interpretazione di Enrico Berlinguer in Berlinguer – La grande ambizione di Andrea Segre, che ottiene anche il premio per il miglior suono. Una statuetta anche per Francesco Di Leva, miglior attore non protagonista per Familia di Francesco Costabile. Nonostante l’elevato numero di candidature, restano invece a mani vuote Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini e Parthenope di Paolo Sorrentino. Un David che, nel suo essere da sempre cerimonia accademica e istituzionale, quest’anno più che mai ha assunto i contorni di una grande assemblea condominiale, in cui si incrociano volti vecchi e nuovi del nostro cinema. Al di là del palmarès, non sono mancate le note di colore a ravvivare una serata che si è trascinata ben oltre la mezzanotte, con il collegamento chiuso poco prima dell’1:30 – in perfetto stile Sanremo. E, diciamolo, un Carlo Conti, col suo passo spedito e frettoloso, forse un po’ ci manca. A condurre la serata, un’inedita e curiosa coppia: Mika ed Elena Sofia Ricci. Simpatici, certo, ma con tempi comici e ritmi scenici completamente sballati. Un’alchimia forse cercata, ma mai davvero trovata. Più che una cerimonia di premiazione, il David di quest’anno è sembrato a tratti una puntata caotica di Call My Agent! Italia, tra inciampi registici, cambi di inquadratura fuori tempo massimo e una conduzione sgangherata che faticava a trovare un filo conduttore. I soliti ritardi sulla scaletta non hanno deluso le aspettative, e il risultato è stato una sala ormai mezza vuota nel momento clou della serata, l’annuncio del miglior film. Un paradosso che si ripete. Ma almeno, a differenza delle passate edizioni, tutti i premiati erano presenti nella stessa sala: una piccola vittoria, se si considera il passato recente in cui le maestranze tecniche venivano spedite in un angolo secondario – quando non proprio in un sottoscala – a ritirare premi che sembravano di “serie B”. Tra i momenti più memorabili – o quantomeno degni di nota – della serata, spicca l’ormai tradizionale, sconnessa e surreale orazione di ringraziamento di Valeria Bruni Tedeschi. Un déjà-vu che ci ha riportato direttamente al David 2017, quando vinse per La pazza gioia di Virzì e ringraziò, tra gli altri, la sua psicanalista e un’amica d’infanzia che le aveva offerto un pezzo di focaccia. Quest’anno, nella stessa scia di poetico disordine, ha voluto omaggiare il truccatore prostetico che l’ha invecchiata – ma forse neanche troppo – per il ruolo della principessa Gaia Brandiforti ne L’arte della gioia. A seguire, il momento straniante di Riccardo Cocciante che, nel mezzo dell’esecuzione di Era già tutto previsto, colonna sonora di Parthenope, ha interrotto bruscamente la performance per riprenderla poco dopo. Una scena che ha ricordato, per atmosfera e confusione, l’esibizione di Bresh durante la serata delle cover a Sanremo. E restando in tema musicale, non si può non menzionare l’In Memoriam. Il momento che dovrebbe essere tra i più solenni e rispettosi dell’intera cerimonia è stato invece sacrificato in favore della performance canora di Mika. La regia ha scelto di inquadrare lui, relegando i nomi e i volti delle personalità scomparse a uno schermo lontano, quasi accessorio. Un tributo che si è trasformato più in sottofondo che in ricordo sentito, riducendo il tutto a parole scivolate via troppo in fretta. Ultimo, ma non certo per importanza, il momento dedicato ai David Speciali alla carriera. Tra i premiati, Giuseppe Tornatore, Ornella Muti – clamorosamente assente – e Pupi Avati, che ha colto l’occasione per lanciare un duro attacco ai rappresentanti istituzionali presenti e alla Presidente dell’Accademia Piera Detassis. Il regista ha criticato l’opulenza della cerimonia, distante, a suo dire, dalle difficoltà concrete del cinema italiano, in particolare delle produzioni indipendenti sempre più in affanno. Nota curiosa e subito virale su X, la presenza tra i premiati anche di Timothée Chalamet, accompagnato dalla compagna Kylie Jenner. Un David Speciale che ha fatto storcere il naso a qualcuno e divertito altri, interpretato da molti come un tentativo, forse neanche troppo velato, di dare una scossa agli ascolti della serata. Oltre ai momenti più discutibili, vale però la pena soffermarsi su alcuni segnali importanti. Per la prima volta nella storia del premio, entrambe le categorie registiche principali sono andate a due donne: Maura Delpero e Margherita Vicario. Un cambiamento lento ma significativo in una professione tradizionalmente dominata dagli uomini. Vicario, premiata anche per la miglior colonna sonora – altro ambito storicamente poco frequentato dalle donne – ha sottolineato l’urgenza di trasformare il femminismo in numeri reali. Molti dei film in concorso quest’anno hanno raccontato storie di donne, diretti da registe e popolati da protagoniste sfaccettate e complesse (L’arte della gioia, Gloria!, Diamanti, quest’ultimo vincitore del David dello Spettatore). Anche nella categoria miglior documentario si è registrata una presenza femminile senza precedenti: quattro candidate su cinque, con la vittoria finale di Lirica Ucraina di Francesca Mannocchi, a conferma di come la realtà continui a irrompere, prepotente, nel cinema. Numerosi i richiami al presente: alla guerra, al rifiuto della militarizzazione, alla libertà individuale e collettiva. Segnali chiari di un cinema che, pur con tutti i suoi inciampi, continua a essere specchio del mondo e che non può permettersi di rimanerne ai margini.